04.06.2020 - COSTANZA GIANNELLI

I tormenti del giovane cinema

Nel 1896, nel sottosuolo di un Café, in Boulevard des Capucines a Parigi, avvenne la prima proiezione cinematografica, per intenderci, quella famosa per la fuga degli spettatori nel vedere arrivare un treno nella stazione di La Ciotat. Al di là delle cronache e della leggenda, la novità era assoluta. Era l’alba di una rivoluzione culturale e anche sociale.  A partire dal 1899, pellicole di durata molto breve (da un minimo di uno a un massimo di tre minuti), invadono i teatri delle principali città. Fotogrammi che scorrono uno dopo l’altro capaci di riprodurre la realtà e di mandare in visibilio le platee: un bacio tra due innamorati, una donna che si tuffa in una piscina, un numero da prestigiatore, un’acrobazia da circo… Ma questo nuovo mezzo sulle prime, ebbe una vita tutt’altro che facile. Erano infatti pochissimi nel mondo intellettuale a considerarlo qualcosa in più di una semplice invenzione scientifica, un divertimento popolare di poco conto, una copia deteriore del teatro. Nonostante l’iniziale curiosità e il gran successo popolare (o forse proprio per questo?) in pochi si resero conto subito di quale rivoluzione sociale potesse costituire. Solo il mondo artistico dimostrava una naturale curiosità. Specie a Parigi cuore allora pulsante della cultura europea, soprattutto per le arti figurative, meta quasi obbligata per ogni italiano che volesse misurarsi con la cultura più avanzata. In Italia, il cinema si può dire mise subito in fuori gioco il mondo intellettuale. Perfino Gabriele D’annunzio, lo scrittore italiano più illustre del periodo che pure col cinema doveva scendere a patti (economici), provava disgusto per la banalità e il carattere grossolano degli spettacoli: ‘un vero avvelenamento del gusto popolare si va così compiendo’, ammoniva. Per molti era un po’ come tradire il teatro, sporcare la propria immagine di artista. Emblematico è quanto scrive il critico letterario Giuseppe Petronio: “In un certo senso verrebbe voglia di dire che per questi letterati e umanisti del primo Novecento il cinema era ciò che per il borghese era la prostituta”. E Giovanni Verga lo confermava indirettamente, scrivendo così all’amica alla quale aveva ceduto i diritti di alcune sue opere: “Vi prego e vi scongiuro di non dire mai che io abbia messo le mani in questa manipolazione culinaria delle mie cose”, decidendo infine di collaborare con le didascalie ma solo a condizione che il suo nome non venisse citato.  Eppure pochi forse sanno che a definirla “settima arte” fu proprio un italiano, un pugliese ancora troppo poco conosciuto, che nella capitale francese si era trasferito ventenne al volgere del secolo. Si chiamava Ricciotto Canudo e del cinema si può definire un vero apripista. Il suo amico poeta Guillaume Apollinaire lo definì “colui che vede le cose per primo”. Aveva ragione. Canudo era un uomo dell’Ottocento, ma a differenza di altri aveva uno sguardo sul nuovo secolo, appassionato alle cosiddette arti figurative (che tanto “figurative”, con l’arrivo dell’astrazione, cominciavano in effetti a non essere più), frequentatore di ambienti di “avanguardia” ma pur sempre legato a quella tradizione che i futuristi volevano invece sradicare. Per lui i metteur en scène erano “pittori che disegnano con la luce e musicisti che si servono del ritmo”. Un vero e proprio pioniere, comandante di una battaglia che lo vedeva scontrarsi con una mentalità che si sarebbe schiusa solo dopo alcuni anni.  Personaggio di cui si è parlato e si parla forse ancora troppo poco nel mondo cinematografico, che ha aiutato il cinema a diventare quello che è oggi, parlando di luce, di sonoro e amando questo nuovo mezzo con tutte le sue potenzialità. Fonte: INDIRE-DIA. Ente fornitore dell'immagine: Olycom S.p.A.